Giancarlo Rocchietti

Fondatore e Presidente del Club degli Investitori

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D: Hai avuto una vita professionale ricchissima, con incarichi di grande prestigio, in campi anche diversi. Quali qualità ti hanno permesso di raggiungere questi importanti traguardi?

Credo che sia un mix di più cose. Quattro sono i fattori principali: imprenditorialità, finanza e innovazione a cui aggiungo la capacità di integrarli e modularli secondo necessità e momento. Lavorando con queste tre competenze ho creato la mia azienda, poi ho fatto altro e circa 10 anni fa ho lanciato il Club. C’è sempre l’imprenditorialità che ha contraddistinto la mia prima fase di vita lavorativa, tuttavia ora sugli imprenditori ci investo e l’abilità finanziaria è d’obbligo. Il fil rouge rimane sempre l’innovazione allora come oggi.

La soft skill imprenditoriale è molto importante quando, con il Club, investiamo come Angel. È importante comprendere che, ìn passato, l’azienda tipo era rappresentata sostanzialmente dal fondatore ed era una realtà più semplice da analizzare, soprattutto perché si consideravano le hard skill (capacità commerciale e gestione dei dipendenti) Oggi le dinamiche delle aziende, in particolare delle startup, sono cambiate: è vitale considerare l’insieme del team e non il solo founder. A questo quindi si deve aggiungere le soft skill che si percepiscono, da ogni membro della squadra, e le interazioni tra i membri del gruppo. Un plus importante è la diversità del team, non solo di genere ed età, ma anche di provenienza geografica e culturale.

Il secondo elemento è la capacità di fare rete. In passato era un fenomeno meno diffuso, c’era molta competizione tra aziende simili e la collaborazione, non finalizzata a vendita acquisto con clienti o fornitori, era più ridotta. Oggi il saper fare network è una soft skill vitale: comprendere le necessità di clienti , fornitori, investitori e partner, dialogare con loro sullo scenario che li vede coinvolti. Persino i competitor oggi divengono elementi di una rete più amplia che l’imprenditore deve coinvolgere, da cui attingere informazioni, contatti e creare nuove sinergie.

Oggi abbiamo tecnologie digitali che ci permettono di mettere in scala operazioni più efficienti, possiamo raggiungere i contatti con maggior velocità. Queste tecnologie ci portano ad avere una rete globale, le distanze si sono annullate. È una realtà quindi a 3 dimensioni (clienti, collaboratori, partner) che si deve costantemente mantenere, incrementare, nutrire. Molti grandi imprenditori, ad esempio, hanno cominciato a partecipare ai Cda di aziende che operano in settori differenti. Il terzo aspetto è l’antifragilità. Negli ultimi anni si parla di resilienza, ma è un termine che non rende l’idea. Ci si fa male, si cade facendogli imprenditori. E le startup non fanno differenza. Quando analizziamo i tema non andiamo a vedere subito il modello di business: molto spesso è il primo elemento di una startup che andrà a cambiare.

Penso al recente caso di successo di D-Orbit, una realtà di space economy nata in provincia di Como. Quando erano partiti avevano come modello di business dei software per de-orbitare i satelliti. Poi hanno compreso che lo stesso software poteva fare l’opposto e dispiegare, con maggior efficienza, i satelliti. Oggi stanno andando in quotazione con una valorizzazione di mercato che supera il miliardo. Hanno saputo comprendere che il modello di business andava riallineato, lo hanno fatto velocemente , e da qui il successo.

D: Creare un club d’investitori è sempre sfidante. Come imprenditore quali sono i passaggi che hai dovuto percorrere per giungere dove sei oggi con il Club degli Investitori?

Quando ho creato il club l’avevo immaginato come un attività part-time. Da ex imprenditore un attività per restare nel giro. Poi ho compreso rapidamente che poteva essere un qualcosa di più strutturato, che la domanda per i servizi del club era in crescita. l’ho gestita come un’impresa personale, i clienti sono i soci che pagano le quote associative. Pur essendo una associazione senza scopo di lucro il suo successo è dovuto all’averla gestita con uno stampo imprenditoriale. Un fattore importante è stato la creazione di consenso, prima interno con i soci e poi verso l’esterno raccogliendo intorno al Club altre realtà sinergiche con le attività dei soci e del club.

D: Il mondo dei Fractional Executive è un segmento ormai diffuso sia nel mondo aziendale che nelle startup. A tuo avviso come questo modello può crescere nel tessuto imprenditoriale italiano?

Ti mando in azienda un CFO per 1 giorno alla settimana o più. È una risorsa. Molti amici in questo periodo della loro vita sono interessati dal passaggio generazionale. Ci sono differenti casistiche in questo fenomeno. Il primo è quando il genitore ritiene che i figli non siano in grado di gestire l’azienda. Ovviamente la preoccupazione dell’imprenditore è legata anche alla sorte dei dipendenti. Il secondo caso è quando il genitore ritiene che i figli non hanno interesse a portare avanti quanto da lui/lei costruito. Il terzo caso, soprattutto negli ultimi anni, è l’elevata competizione.

L’imprenditore che ritiene che lo scenario dove la sua azienda è evoluta sia ormai saturo, altamente competitivo e preferisce non lasciare ai figli un onere anche emotivo che li incateni. Una soluzione alla crisi del passaggio generazionale è rappresentata dalla nuova figura del fractional executive.

Per i figli avere un manager esterno, che essendo fractional non entra nelle dinamiche psicologiche ed emotive dell’azienda, è un supporto. Egualmente per il genitore avere una figura matura che può traghettare l’azienda perso la sua evoluzione con la nuova generazione risulta una sicurezza. Una figura manageriale è un ottimo strumento per creare un percorso evolutivo in molti imprenditori: da imprenditore “operaio” a imprenditore azionista, che può focalizzarsi maggiormente su grandi scenari di visione per far crescere l’azienda, e lasciare il day by day al manager frazionale.

D: Come vedi il settore del credito alle Pmi italiane? Quali prospettive per la loro crescita in sinergia con gli investitori che credono nel territorio?

Il nostro paese è costruito su un modello imprenditoriale. C’è però un grave rischio che osservo in crescita. la finanza, presa a debito è una soluzione in apparenza comoda per tutti. A mio avviso questo modello è deleterio. L’impresa può sempre ridiscutere il debito, ampliarlo, di fatto non esiste un effettivo stimolo a dare risultati. Credo che sia molto più utile un approccio di equity, dove chi mette i fondi è presente nel Cda, partecipa, tiene alta la tensione operativa dell’imprenditore.

Il private equity è spesso vissuto in modo violento: qualcuno arriva e ti compra l’azienda. Invece in Italia si dovrebbe abbracciare questa soluzione in chiave di crescita sinergica. Colui che partecipa non porta solo finanza ma anche competenze, la sua rete e la capacità di accrescere il valore dell’azienda. Io stesso quando ero imprenditore ho accolto un operazione in equity, mi ha permesso di crescere non solo in termini finanziari ma come imprenditore e impresa

Un Fractional Executive può fare la differenza per una PMI.

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