Alessandro Minon

Presidente presso Finest SpA

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D: Hai già avuto una vita professionale ricchissima, con incarichi aziendali e istituzionali. Quali qualità ti hanno permesso di raggiungere questi importanti traguardi? 

Parlerò dei miei difetti. Sono estremamente testardo. Ho il difetto di essere diretto verso tutti, specialmente le persone che stimo, ho il difetto di saper ammettere quando sbaglio. Nella vita professionale niente accade per caso e serve lavorare duramente. In gioventù ho sempre lavorato tantissimo. Ho sempre voluto imparare e ho sempre accettato di pagare il prezzo delle mie scommesse. Ci sono successi e insuccessi ovviamente. Una startup su cui avevo investito tempo e risorse economiche alla fine non è decollata; capita.

Son sempre stato affascinato dai cambiamenti e ho sempre messo in discussione qualunque cosa mi venga proposta: sono solito approfondire sia che si tratti di un progetto che di una semplice informazione in un telegiornale. Sono molto curioso, disposto al cambiamento ma interessato a come avviene il cambiamento stesso.  Mi viene in mente, come esempio, le dinamiche del fanatismo per l’elettrificazione delle reti con le nuove soluzioni sostenibili. Un aspetto fondamentale che supporto in pieno. Tuttavia credo sia importante che questo evento avvenga passo dopo passo, quando vi sono i presupposti tecnologici e le strategie sono disponibili. Penso al settore automotive: un settore che può beneficiare delle soluzioni elettriche ma senza essere estremi, specie quando ancora c’è molto da fare perchè queste tecnologie, e relativi costi, possano essere assorbiti dal mercato e dai consumatori. Ci siamo spinti a rinnegare l’intero piano energetico a base fossili e ora, con le tensioni che possiamo osservare, alcune nazioni addirittura son tornate al carbone. Ecco io penso che l’evoluzione tecnologica debba andare a braccetto con quella sociale, in cui gli individui hanno il tempo di adattarsi al cambiamento e farlo proprio.

D: L’export è una chiave di volta per le Pmi italiane. Come pensi evolverà nei prossimi anni e quali opportunità offrirà alle aziende? 

È una domanda che richiede una risposta articolata. Ci sono momento della storia dove vi sono periodi di forte fermento. Poi ci sono periodi in cui l’evoluzione accade in discreto. Queste disruption non sono sempre legate a miliardi di fattori, ma sono legate a decisioni effettuate in stanze che non conosciamo, da poche persone. Da piccole decisioni possono derivare grandi scenari di cambiamento: come si affronta una pandemia, una crisi militare, il blocco di una supply chain, la sovranità digitale cinese in Africa. Mi è facile prevedere i trend della presenza cinese in africa. Mi è difficile immaginare se tra un anno ci sarà un riavvicinamento che consenta un miglior approvvigionamento di fattori energetici e materie prime; questo dipende da tanti fattori che possono ripresentarsi come un cigno nero. I trend iniziati in alcune parti del mondo difficilmente si fermeranno. Penso ai fenomeno del near shoring e friend shoring: saranno sempre più cardinali nella politica degli stati. La sottovalutazione dei rischi significa una errata valutazione economica. In passato abbiamo avuto una globalizzazione spinta, dove per guadagnare il 0.5% eri disposto a posizionare le tue manifatture in paesi lontanissimi Oggi si sovrastima il fattore di rischio, anche in ambito logistico, pur di evitare rischi anche solo potenziali.

La mia sensazione è che si stia andando verso una sovrastima dei rischi geopolitici, come le guerre. Tutte le aziende devono ragionare sulla base della convenienza, ma se una cosa non ha logica aziendale non va fatta. Se un azienda deve acquisire una posizione in un paese deve comprendere come muoversi. Tutto deve essere soppesato sulla convenienza del singolo soggetto, sempre nel rispetto delle leggi e normative. La mia sensazioni è che si andrà verso un accorciamento delle tante catene del valore e dei rifornimenti. Nello scenario che si è andato a disegnare nell’epoca della pandemia, e che si è consolidato con la crisi ucraina, è logico pensare che vi sarà una rielaborazione delle supply chain di ogni industria e azienda. Tuttavia ritengo che questa evoluzione debba avvenire passo dopo passo, senza violente forzature, analizzando caso per caso. Osserviamo il triveneto: come Finest, vedo che per noi è interessante l’accorciamento verso i paesi dei Balcani come la Serbia. Sul fronte mediterraneo vedo delle ottime opportunità per le pmi italiane in nazioni che sono l’accesso all’Africa francofona: Marocco e Tunisia. Fondamentale, per affrontare l’export, è investire in tecnologia e sviluppo. È importante che le nostre aziende si rafforzino mediante educazione e formazione. Noi italiani, nel nordest, siamo sempre stati geniali nel fare le cose come piccole aziende. Purtroppo non è più un tempo di singoli eroi ma di fare sistema come con l’esempio valoriale dei Cluster di settore.

Fondamentale il concetto di sistema paese. Il sistema che si espande anche grazie al supporto del paese è vitale. Se devi avere la concessione per estrarre il rame è difficile se partecipi solo ad una gara. Se l’Italia non fa sistema paese non sarà facile avere accordi. Come Finest ritengo che sia fondamentale: cerchiamo di fare sistema con le altre istituzioni italiane e con le altre aziende, sia tramite conoscenza di mercati, sia con il sistema italiano, sia con sistema paese target. Forse il paradigma sta cambiando: alcune cose che erano considerate commodity si sono ripresentate con buone marginalità; penso all’agroalimentare per esempio, può ritrovar importanza che era stata sottovalutata in passato. L’alta tecnologia deve essere applicata per rendere efficiente l’intero processo.

D: La discontinuità è un aspetto costante del contesto economico ed aziendale. A tuo avviso, sia B2C che B2B, come si può supportare l’evoluzione delle aziende italiane?

Per le grandi aziende, che han la disponibilità di uffici di strategia, il problema è minore. Quando parliamo di Italia non dobbiamo dimenticare che la spina dorsale della nostra nazione sono le piccole e medie imprese. Queste aziende han spesso una carenza informativa, una carenza di strategie e, a livello tecnologico, non han consapevolezza dello scenario complesso in cui sono inserite, specie se facenti parte di una filiera. Non sono riuscite a investire nel cambiamento tecnologico. Io rimango dell’idea che le aziende devono essere nella condizione di non essere tartassate, avere un sistema paese che le facilità nell’intraprendere e devono essere libere di muoversi. Questo quando l’evoluzione è continua e sempre più veloce. Sarà il libero mercato che le farà crescere, ma molte, se non si aggiorneranno, saranno estinte. In un mondo normale i momenti di disruption implicano che lo stato sia il meno presente, permettendo che il momento di cambiamento faccia crescere le aziende. Tuttavia lo stato deve affiancare in modo non aggressivo le aziende, fornendo loro conoscenza, informazioni di spessore, mostrando l’evoluzione di trend, facilitando l’inserimento di consulenti qualificati che possano portare valore alle aziende.

Come Finest stiamo portando avanti degli accordi con l’intero sistema nordest Friuli Venezia Giulia, Trentino e Veneto: organizziamo cicli di incontro, webinar concreti su temi premianti, con eventi che permettano approfondire temi di attualità e di scenario, permettendo alle aziende di incrociarsi tra loro e conoscere potenziali clienti. Lo stato deve fornire condizioni in cui questo equilibrio possa essere raggiunto. Anche se pare molto lontano, un efficientemente cuneo fiscale può favorire questo processo. È importante favorire un mercato del lavoro che sia conveniente per le nuove figure: molto, a livello di formazione, si deve fare investendo nelle nostre università. Penso agli istituti tecnologici industriali: non abbiamo persone che san lavorare sulle macchine a controllo numerico. Si deve fare un cambiamento su forme di sussidio che han incentivato il non-lavoro, si genera una carenza di personale.

Ultimo punto vitale è il nexus che implica l’avvicinamento delle aziende di stato alle tante entità di filiera, associazioni di aziende private con i quali possono interagire su differenti fronti. A livello geopolitico serve chiarezza. Molte aziende ancora non capiscono come si evolveranno le cose nei prossimi 5 anni.

D: Pensando ai manager Fractional, e tutte le altre figure professionali che si promuovono presso il mondo delle Pmi… in che modo ritieni questa tipologia di managerialità può essere un valore aggiunto per le aziende che esportano o investono all’estero? 

L’italia dal punto di vista finanziario è un paese piccolo. Abbiamo visto decrescere il nostro peso e le risorse che abbiamo non sono spaventose. Abbiamo grande ricchezza di valori: io ricordo una grande azienda che produceva motociclette nella quale gli ex dipendenti avevano un’associazione che era interna all’azienda, dove potevano incontrarsi quando volevano e s’interfacciavano con l’azienda stessa. Il meccanico in pensione, con 35 anni di esperienza, entrava con ingeneri più giovani e discutevano. Non era un fatto economico. Ci sono molte persone che han molto da dare o perché in pensione o perché han scelto di non essere più parte di un’azienda di grandi dimensioni, e stabilire un differente equilibrio tra vita personale e vita lavorativa.

Queste figure, con un’elevata professionalità e competenza, possono avere la volontà di essere utili per essere coinvolti in aziende più giovani, magari con una piccola partecipazione societaria. Io la chiamo la fase del give back.

Ecco che i manager frazionali han significato, con la loro metodologia. Le competenze sono tali che un medico di alto livello individua la patologia e quindi fa più volte al giorno questo compito, che magari è poi implementato da altri operatori sanitari che possono portare avanti le terapie. Nel caso specifico trovare delle forme giuridiche che efficienti l’apporto di manager, tecnici, ricercatori, senior, che intendono uscire dal ciclo full time della azienda per presentarsi alle azienda in modo frazionale spesso non per necessita economica, generano una grande utilità. Una forma può essere una leva fiscale: assumendosi un rischio da parte del singolo, incentivando queste persone senior, incentivazioni da parte delle aziende che prendono queste figure. Una figura quella del fractional, che può avere un significativo impatto nelle dinamiche delle Pmi