di Mauro Borghese, Senior Advisor yourCFO


 

Non è tutto oro quel che luccica

Nel 2010 rinunciai al mio incarico di dirigente, in una grande azienda farmaceutica, per una nuova avventura attratto dall’idea di ricoprire un ruolo centrale e di supporto al business in un’impresa di dimensioni più contenute di cui, la proprietà, mi rappresentò prospettive grandiose per il futuro.

L’azienda in questione è una media multinazionale che produce camere di sterilizzazione per ospedali con 300 dipendenti, di cui circa 120 in Italia, e sedi in Usa, Brasile, Middle East, Francia e Germania nonché uffici di rappresentanza e agenti in Russia, Cina ed Africa. La struttura AFC, che centralizzava l’amministrazione a livello worldwide, era composta di 20 risorse con una seconda linea divisa secondo i tradizionali canoni dell’organigramma AFC. Insomma davvero un buon punto di partenza.

 

L’AD e il direttore generale mi illustrarono un entusiasmante piano di crescita che avrebbe visto raddoppiare, in meno di cinque anni, ricavi con efficienze tali da spingere i risultati verso orizzonti inesplorati. Però, come noto, non è tutto oro quel che luccica.

Infatti, il piano e il budget, non tornavano con i 400 giorni di rotazione del magazzino, i 350 di rotazione dei crediti con debiti pagati mediamente a 260; un ciclo monetario insostenibile. Semplificando tanto fatturato ma pochi incassi in un’impresa che operava per commesse con un backlog poco frazionato e di conseguenza un rilevante rischio concentrazione clienti.

 

Quanto sopra suggerì che il controllo di gestione fosse esclusivamente focalizzato sulle performance economiche, trascurando totalmente i risvolti di cassa e dando per scontato, all’indomani della crisi del 2007, che le banche erogassero credito in qualsiasi condizione. In realtà, in quel contesto, il merito di credito era edulcorato dalla forza di una holding che non lesinava garanzie e patronage.

 

La crisi di cassa sotto al tappeto dei fatturati

Iniziai quindi a lavorare, stressando un’amministrazione non abituata ad un tale esercizio, sulla pianificazione di tesoreria mentre entravo nelle logiche del controllo di gestione la cui rivisitazione, prima del mio ingresso, era stata affidata ad una delle big 4 (fortunatamente perché il confronto con soggetti esterni mi consentì di raccogliere informazioni preziose sull’ambiente).

Intanto la tensione finanziaria si acuiva con l’arrivo delle prime azioni legali dei fornitori e l’emersione di sofferenze bancarie.

 

Spostai quindi totalmente l’attenzione dalla vita ordinaria dell’azienda alla comprensione di quella che mi appariva, sempre più, una situazione di crisi finanziaria per giungere a capire che i problemi non erano solo di quella natura.

Grazie al supporto dei collaboratori, con i quali presto le barriere di reticenza lasciarono il posto ad un pieno rapporto di fiducia, emerse

  • che i margini previsionali delle commesse erano calcolati non per avere un’obiettiva visione della loro sostenibilità ma per giustificarne l’acquisizione con risultati a consuntivo che mai restituivano le performance attese e
  • che il fabbisogno di cassa, per la durata del ciclo monetario rispetto al residuo merito creditizio dell’impresa, non era assolutamente sostenibile; tra l’altro avendo già pienamente sfruttato (con garanzie e patronage) l’appartenenza della società ad uno Gruppo che nel complesso cubava un turnover da quasi 400 milioni di euro / anno.

 

Il confronto interno: si inizia a remare. Forte.

Dopo circa sei mesi, sicuro ormai delle mie analisi nel contesto di una dialettica non serena con il top management, decisi di confrontarmi con chi, nell’holding, mi conferì a suo tempo l’incarico: non scorderò mai la domenica di inizio luglio, già molto calda, in cui comunicai nel corso di una telefonata che la società era tecnicamente fallita e che occorreva intervenire tempestivamente con un cambio di rotta. Avvertii, dall’altra parte, molto scetticismo, considerate le attese, ma a parlare per me c’erano decreti ingiuntivi, delibere di riduzione o revoca fidi, shortage di materie prime e componenti.

 

Dopo confronti drammatici, la proprietà, che comprese che l’azienda era ingessata dal debito pregresso ma che il prodotto aveva ancora mercato per cui sarebbe stato un peccato gettare tutto alle ortiche, optò per un cambio di management (nuovo AD) ed io entrai, non a cuor leggero, nel CdA con l’obiettivo preciso di dare un segnale al ceto dei creditori, in particolare agli istituti di credito.

Fino a quel momento era come aver condotto una barca con una falla nello scafo: mentre remi devi liberarti dell’acqua che imbarchi. Da ora in poi avremmo dovuto solo remare, forte. Era già qualcosa.

 

Con la nuova squadra si decise che non si poteva continuare a lavorare in modo ordinario dal momento che “non puoi aspettarti risultati diversi facendo sempre la stessa cosa”. L’essenza del turnaround è proprio questa: togli la testa da sotto la sabbia, cambia il modo di vedere le cose e di agire se vuoi raggiungere gli obiettivi del percorso di risanamento.

 

Le azioni strategiche del piano furono elaborate sulla scorta di due linee di intervento:

  1. acquisizione di commesse sostenibili ed emersione di efficienze nella produzione, a cui avrebbe corrisposto una puntuale pianificazione industriale;
  2. ristrutturazione del debito pregresso, nella consapevolezza che questa seconda linea di intervento ha senso solo se la prima è realizzabile e basata su assunzioni credibili.

 

 

L’intervento interno, sulle operazioni

Innanzitutto occorreva gestire una fase di transizione (necessariamente breve) prima di far emergere all’esterno la situazione di crisi, momento in cui è strategico comunicare senza improvvisazione nonché esprimere la forza del team.

Occorreva quindi salvare le commesse che erano in avanzato stato di ultimazione dedicando, esclusivamente a queste, i pochi flussi di cassa disponibili, valutandole soprattutto sotto il profilo della possibilità di incassare in tempi brevi.

 

 

Le azioni della prima linea di intervento furono quindi declinate come segue:

  • acquisizione di commesse in ossequio ad una rigida procedura basata sul principio di segregation of duties (= analisi da parte AFC dei margini prima di partecipare ad una gara o avviare una trattativa) e approvazione condivisa;
  • rivisitazione delle procedure acquisti e delle politiche di gestione delle scorte;
  • ingegnerizzazione di produzione all’interno con riduzione delle commesse in conto terzi per il recupero dei margini ed un adeguato assorbimento della forza lavoro;
  • attenzione alle fasi di collaudo per contenere i rischi di penali post-sale;
  • implementazione delle procedure di controllo di gestione;
  • ridimensionamento delle strutture all’estero;
  • rivisitazione degli accordi contrattuali con i lavoratori per la riduzione delle componenti variabili.

 

L’intervento esterno, ristrutturazione del debito e nuova finanza

La strategia di riorganizzazione industriale doveva necessariamente essere supportata da una fase di ristrutturazione del debito indispensabile per bloccare l’emorragia di liquidità.

Si decise quindi di proporre un piano attestato ex art. 67 LF, sostenuto dagli azionisti che dimostrarono di credere al piano industriale condividendo, con opportuni interventi di ricapitalizzazione, i sacrifici richiesti a fornitori e banche.

 

Le azioni alla base della ristrutturazione del debito erano:

  • debito di funzionamento: stralci e riscadenzamento del debito verso fornitori (con continuità per il futuro);
  • debito di finanziamento: proposta al sistema bancario del consolidamento del debito, congelamento per 24 mesi del rimborso, restituzione in dieci anni, remunerazione contenuta (circa 100 bps + euribor) e mantenimento degli affidamenti per linee revolving e/o a breve che praticamente corrispondeva all’erogazione di nuova finanza.

 

Il piano prevedeva anche la riduzione del costo del lavoro attraverso il ricorso agli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, mobilità). Oltre al piano attestato ex art. 67 LF venne predisposta (piano B) anche la domanda di concordato preventivo qualora il ceto creditorio non avesse accolto positivamente la proposta.

 

A fine di non pregiudicare la produzione in corso, chiedemmo alle banche uno stand still sulla scorta di primi draft di piani di intervento.

 

Ripartire verso il futuro

Ottenuto lo stand still iniziammo a convocare, uno ad uno, tutti i fornitori strategici che , per la maggior parte, accettarono stralci e piani di rientro una volta compresa la possibilità di riavviare il rapporto in condizioni di normale operatività (pagamenti tra 60 e 90 gg).

 

Per quanto riguarda le banche, queste si presentano sempre preparate ed assistite da professionisti esperti nel restructuring; le negoziazioni, ancorché sembrino seguire un rito (ottenimento stand still, attenta analisi del piano industriale, dimostrazione dell’implementazione delle azioni, tutto scandito dalla continua corrispondenza tra legali), furono complesse ed impegnative; in quell’occasione impiegarono anche più tempo in quanto venne richiesta un IBR del piano che diede parere positivo. Solo pochi istituti di credito, dei 20 coinvolti, si sfilarono e, come spesso accade, si tratta di istituti con posizioni non rilevanti.

 

Infine le rappresentanze sindacali che, pur mantenendo il loro ruolo, una volta convinte del piano consentirono l’avvio della sua realizzazione.

 

Tutto questo è durato un anno; a maggio del 2011 avevamo accordi con i fornitori per il pregresso e per la continuità, una convenzione con gli istituti di credito che imponeva covenants e informativa contabile e gestionale, la riduzione del costo del lavoro attraverso la rivisitazione delle componenti variabili dei contratti ed una contenuta mobilità. L’azienda era ripartita.

 

Alla fine, quando tiri le somme, scopri che la crisi può essere un’opportunità. Infatti non è solo un modo per ridurre o allungare il debito ma è l’occasione per rendere efficiente l’azienda, per introdurre nuovo management, per rivedere l’organizzazione e creare procedure; in sintesi per gettare le basi dell’azienda del futuro.

 

 

 

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