D: Ci vuoi raccontare un po’ della tua straordinaria esperienza professionale?

Ho cominciato a lavorare nell’allora Ufficio Studi della Comit per costruire il dipartimento di risk management quantitativo, che ho diretto per 12 anni come responsabile market risk management. Un giorno ho deciso di investire in tecnologia, per far si che la banca potesse evolvere. Avevo proposto a Passera di fare una joint venture per esporre gli analytics e guidare la trasformazione del sistema in ottica di relazioni digitali, poi c’è stata la fusione con Sanpaolo e ovviamente un cambio di priorità. Un giorno è arrivata una banca tedesca in Piazza della Scala per vedere le mie realizzazioni di risk management, tar le più avanzate in Europa. Loro parlando con me volevano fare un progetto che sposava le mie idee e mi hanno proposto di cominciare insieme un percorso. Era il 2008. Mi sono quindi trasferito in Germania, on sapevo una parola di tedesco, e ho creato una startup con dei soci industriali di riferimento. Sono passato da essere “intrapreneur” a essere “entrepreneur. Poi IBM ha comprato la mia piccola realtà nel 2013. IBM aveva bisogno di persone che fossero esperte di industria, thought leadership e abili a comprendere modelli di business e di trasformazione, e quindi sono entrato nel gruppo. Ho quindi cominciato a seguire il mondo del Fintech a livello mondiale e come si applica tecnologia a questi business model. Oggi sono responsabile globale per la ricerca sul Banking e Financial Markets di IBM Institute for Business Value.
Idealmente la mia vita è quella di Dante: ho cominciato nel risk management, all’inferno di tutti i problemi della finanza. Poi sono diventando imprenditore, un’esperienza in cui si soffre come stare al purgatorio. E poi sono andato in paradiso, simpaticamente in IBM, per capire i temi delle tecnologie esponenziali. Ciò che ho scoperto è l’essere umano, la nostra natura biologica e cosa ci lega alla tecnologia e al denaro in modo emotivo, per creare dei percorsi alternativi di valore che sono riflessi nella mia letteratura e nei modelli di business che discuto a livello mondiale.

 

D: Come vedi il ruolo dell’innovazione nel mondo aziendale italiano?

Le aziende tradizionalmente sono concepite come business molto lineari. C’è la manifattura del prodotto, assemblato e poi distribuito: un mondo detto della” output economy” i cui i target sono definiti in termini di quantità vendute. La tecnologia in origine era concepita come elemento facilitatore di un migliore e più efficiente percorso produttivo; meno materiale, etc.. questo ha visto le imprese italiane capaci di usare la tecnologia affrontare un problema dimensionale. Scala economica per acquisti di materie prime etc… Ora succede che ci muoviamo dalla “output economy” alla “outcome economy” nel mondo digitale. E’ quasi una rivoluzione copernicana nel modo di fare impresa.
Per fare un esempio di cosa intendo con “output economy” ragioniamo in termini di settore automobilistico. Per esempio, FCA vuole vendere 1 milione di automobili nel 2021. Invece, in termini di “outcome economy” l’obiettivo di FCA diventa mobilizzare 1 milione di persone con il “car sharing”. Cambiano gli economics, come e cosa il cliente paga, gli obiettivi d’impresa.
Per fare un esempio nel mondo dei servizi finanziari, “output economy” vuol dire che la banca vuole vendere 100 milioni di asset under management di un fondo azionario, e viene pagata con le commissioni di prodotto. In termini di “outcome economy”, la banca vuole aiutare i suoi clienti a raggiungere obiettivi personali, finanziari e di impresa, e viene pagata con le commissioni di relazione disgiunte dai prodotti.

Quelli della “outcome economy” sono nuovi modello di business che non si possono affrontare se non si comprende la tecnologia digitale. Le aziende italiane faticano a capire come concepire modelli di business non lineari ma su piattaforma. Egualmente faticano a utilizzare la tecnologia grazie a piattaforme, messe in scala a basso costo, con valore aggiunto.
Mentre continuano ad affrontare tema competitivi per ridurre costi, aumentare valore etc… c’è bisogno di fare questo passaggio verso l’economia delle piattaforme, il cui  cuore deve essere il valore generato per gli individui e le imprese nel processo di relazione.

Quello che è importante è il valore dell’interazione. Tu azienda hai in mano questo elemento. Puoi dare valore e servizi differenti. Il passaggio da “vendo un prodotto” a “un servizio piattaforma” non è scontato, ma se non crei una piattaforma minima, non puoi fare il passaggio.

Perché è importante questa evoluzione? Le aziende italiane lavorano da sempre con la tecnologia. Il punto è che la tecnologia digitale permette di fare nuove attività prima impossibili. Migliorare alcuni aspetti. Creare modelli di business nuovi, basati sulle piattaforme. Uno tra i primi casi che mi vengono in mente è concepire la vendita. Non si vende più una singola tecnologia, inserita in un prodotto o un servizio. La vendita è di per sé un ingaggio: si vende per creare un ingaggio iniziale con il cliente.
La prima attività quindi è quella di trasformare ciò che tu vai a vendere per creare ingaggio differente con la clientela finale. L’altro è la riorganizzazione degli strati produttivi, su piattaforme digitale. Questo percorso di aggregazione ricorda quello dei distretti industriali, per decenni fiore all’occhiello dell’eccellenza italiana, ma sulle piattaforme lo si fa con il digitale, concependo la soluzione in un’ottica di ecosistema. Nei distretti ragionavano in modo simile ma come piattaforma spontanea, ora ci vuole organizzazione e visione. Ci vogliono testa (che purtroppo in Italia spesso manca) che cuore (che abbonda nel nostro carattere).

 

D: Pmi, governance 100% familiare vs mista. Come vedi la presenza di manager esterni (fissi o frazionali) per portare innovazione nelle Pmi?

Ho da poco completato un lavoro strategico molto importante, per il Consiglio di Amministrazione della Shanghai Pudong Development Bank che è tra le banche cinesi una delle più digitali, presentato al convegno Fintech di Ant Financials. Il tema era lo studio per meglio comprendere l’evoluzione dell’open banking nell’ottica di diventare effettivamente competitivi rispetto alle big tech come Alibaba(Alipay) e Tencent (WeChat). Il unto cruciale é comprendere come ricostruire un percorso strategico e basato su una cultura aziendale che ragioni in modo aperto e non lineare. Questo percorso richiede un cambio di mentalità: capire cosa vuol dire innovare sul digitale oltre i prodotti, come disegnare la governance delle piattaforme sugli ecosistemi non bancari, come far fare alla banca il salto di qualità. Per molte imprese trovare un equilibrio tra il loro percorso precedente e quello futuro richiede una rielaborazione dell’organigramma e delle dinamiche decisionali interne. Ciò che possiamo chiamare la “legacy leadership”. Se la governance interna non è in grado di capire questa evoluzione difficilmente vi sarà mai una tensione equilibrata, inclusiva e fruttuosa nel viaggio verso il nuovo modello.
Ecco perché contaminarsi con soggetti esterni può essere importante. Non è solo il fatto di avere una voce esterna per risolvere i problemi. Le idee che provengono dall’esterno non rappresentano solo un’opportunità manageriale ma anche e soprattutto una sfida innovativa.

 

D: Personal branding e network. In quanto esperto cosa suggerisci a manager o professionisti indipendenti x strutturarsi? 

Molte aziende incentivano i dipendenti ad usare un approccio costruttivo per imparare a confrontarsi e creare valore nella comunicazione. Questo si può fare in tanti modi; i social media, ovviamente sono uno strumento possibile per creare valore. Tuttavia non è semplice a livello personale: ci si deve organizzare, in termini di pensiero, con contenuti e materiale utile da condividere.
I miei libri, per esempio, sono analisi strategiche su temi molto attuali che durano anni. Mi permettono di creare ragionamento su un raggio temporale molto lungo rispetto ai social media, che sono un evento molto localizzato nel tempo. La letteratura permette di trasportare i contati sociali e professionali sulla propria piattaforma personale, un po’ come i blog.
Poi ci sono altre modalità comunicative. Ho promosso, e sono tra i fondatori, di Breaking Banks Europe. Fondato in USA da Breat King, mi aveva chiesto aiuto per creare una casa in cui invitare le principali voci dell’innovazione Fintech in Europa. In questo caso, sono io che ospito per condividere e discutere il punto di vista di chi parla. Attraverso i social media ottengo numerosi feedback, a volte maggiori che con i contatti diretti, che mi permettono di arricchire il mio pensiero, la mia ricerca, il mio contributo professionale..
Dal personal branding virtuale poi cresce il networking, in un processo circolare virtuoso. Per esempio, prima di affrontare un viaggio di lavoro in Australia comincio a proporre alcuni post su focus Australia. In questo modo, anticipo il mio viaggio, ricevo feedback, creo un gruppo e possibilità di nuovi incontri professionali e personali una volta che sono nella loro area. Anticipare i temi mi permette anche di cominciare il dialogo con i clienti da un livello maggiore di comprensione, rendendo gli incontri più efficaci.
Il mio ruolo in azienda è quello di parlare dell’industria ed essere a disposizione dei clienti a prescindere dalle soluzioni IBM in campo. Quindi quale è il mio ruolo, arricchito da tutti i viaggi e le relazioni professionali attorno al globo? Il mondo è diviso grosso modo in tre aree, senza voler dimenticare nessuno. Ci sono gli USA dove nasce la tecnologia digitale (anche se la Cina sta diventando molto competitiva). C’è l’EUROPA dove nasce la regolamentazione (importante per creare un mercato davvero comune, e proteggere i consumatori). Ma il grande vincitore è la CINA (e con essa l’INDIA) perché li nascono i modelli di business. Non tutti i modelli di business sono esportabili. Il mio ruolo è capire quali sono e come funzionano i modelli di business; capire quali tecnologie e architetture digitali permetto di metterli in scala; capire il contesto regolamentare e sociale di riferimento per adattarli all’Italia, alla Germania, al Messico etc..

Sostanzialmente, ora sono un imprenditore di idee. La letteratura è la mia piattaforma per condividere queste idee creando interazioni a valore aggiunto. I social media permettono di parcellizzare quanto scritto in un libro, condividerlo a piccole dosi. D’altro canto, i social media mi permettono anche di sperimentare: ho una parola nuova che voglio provare? La butto li; faccio i miei test di mercato sulle mie idee. Se ho un ritorno positivo su un termine o un concetto allora procedo poi a espandere il concetto e scrivere un paper o un libro. È un processo circolare in continua evoluzione.