D – Professionalmente parlando, come sei giunta dove sei oggi?

Ho iniziato il mio percorso professionale in Tim. Ho seguito l’evoluzione del Gruppo occupandomi di HR e Relazioni Industriali. Nel 2010 sono stata chiamata in Confindustria che in quel momento era alla ricerca di profili professionali provenienti dal mondo aziendale per generare una contaminazione con il mondo imprenditoriale. Così per cinque anni sono stata Direttore delle Relazioni Industriali di Unindustria a Roma, sino al 2015, quando ho iniziato il mio percorso in Asstel-Assotelecomunicazioni, ricoprendo il ruolo di Direttore.

In Asstel la sfida è quella di rendere l’Associazione un punto di riferimento per le imprese, la loro “casa”. Una sfida che oggi possiamo dire di aver vinto. Abbiamo infatti aperto collaborazioni su vari fronti interagendo con differenti stakeholder e ampliato il sistema di rappresentanza a tutte le aziende della Filiera delle TLC (ricomprendendo, i produttori e i fornitori di terminali-utente e delle infrastrutture di rete, di apparati e di servizi software per le telecomunicazioni, i gestori di servizi e di infrastrutture di rete e i gestori di servizi di CRM-BPO).

È dunque ormai evidente che per guidare la trasformazione è necessario porre in essere strategie che facciano propria una visione a medio e lungo termine.

 

D – Smart Working, banda larga e 5G. Quali sfide e opportunità vedi per il tuo settore?

Io credo che la realizzazione delle infrastrutture sia un prerequisito della trasformazione digitale e questo vale particolarmente per le imprese private, i cittadini, la PA digitale, per la sanità, il mondo dell’istruzione e per numerosi altri settori che richiedono servizi digitali intelligenti. L’esperienza vissuta durante il lockdown ha determinato una accelerazione di modernizzazione senza precedenti e molti hanno avuto l’opportunità di comprendere quanto l’infrastruttura delle TLC sia un asset strategico del Paese. L’Italia dal punto di vista della connettività è in linea con il resto d’Europa.

Tuttavia, servono investimenti strutturali su cultura e competenze digitali. Oggi, anche con le risorse economiche europee, abbiamo la grande opportunità di completare la trasformazione digitale del Paese. La cultura digitale è la nuova “emergenza nazionale” considerando che l’indice DESI 2020 ci posiziona all’ultimo posto della Classifica europea per le competenze digitali e utilizzo delle tecnologie.

Tuttavia, la pandemia da Covid-19 e il lockdown hanno impresso una forte accelerazione alla digitalizzazione del Paese e ora è necessario mettere a valore tutto quello il vissuto.

In questo senso serve investire sulle competenze digitali, seguendo due direttrici: quella dell’istruzione e dei nuovi modelli educativi per i giovani e quella della formazione continua per i lavoratori delle nostre aziende. Nel primo caso dobbiamo giocare d’anticipo: identificare i nuovi mestieri e il set di competenze (tech e soft skill) partendo dai fabbisogni delle imprese. E su quelli immaginare modelli educativi adeguati che coinvolgano università e scuola.

Inoltre, secondo i dati degli Osservatori del Politecnico di Milano il 43% delle aziende associate ad Asstel ha già definito una strategia di sviluppo del capitale umano, in termini di evoluzione delle competenze, professionalità e stili di leadership necessari per ciascuna linea di business, mentre il 46% lo ritiene un tema di interesse da affrontare nel corso del 2020. In particolare, il 57% delle imprese associate Asstel ha investito in competenze e capitale umano e il 54% in programmi di reskilling e upskilling.

Le misure di carattere comunitario, Next Generation Eu e il Fondo Sure, sono gli strumenti chiave sui quali incardinare un grande programma nazionale di competenze e di politiche attive. Ma per evitare di ripetere gli errori del passato – l’Italia ha speso poco e male le risorse a disposizione – bisogna rilanciare partnership pubblico-privato, all’interno delle quali le imprese definiscano i fabbisogni e il pubblico disegni il quadro normativo e progettuale. È una chance imperdibile per il Paese, quasi un’ultima chiamata direi, non solo per agganciare il treno della ripresa ma anche per accelerare sul percorso di digitalizzazione e innovazione che incideranno positivamente sulla competitività e sulla produttività del Paese stesso.

Un altro tema importante è quello dello smart working e della “nuova realtà” ibrida che stiamo vivendo e vivremo forse per un lungo periodo. Durante il lockdown abbiamo vissuto l’esperienza del remote working.

Il vero smart working presuppone un profondo cambiamento culturale delle persone e un nuovo senso di imprenditorialità. Un processo che vede una sintonia tra digitalizzazione e un nuovo stile manageriale che non si basa più sul controllo, ma sulla fiducia, distribuendo in modo ancora più orizzontale la responsabilità e quindi il merito sui risultati. Si tratta di un ribaltamento dei vecchi schemi lavorativi che sostituisce il controllo dei pochi, riconsegnando alla libertà dell’individuo dove e come lavorare per il raggiungimento degli obiettivi. La possibilità di lavorare ovunque in tempi e modi che rendono più agevole la conciliazione con i tempi di vita può fare da apripista a un nuovo modello di sviluppo “urbano” che elimini la dicotomia tra centro e periferia e tra grandi e piccole città. Contribuendo a disegnare un Paese che si sviluppa in ottica di sostenibilità e inclusione.

 

D – Come vedi il ruolo dell’innovazione nel mondo aziendale italiano?

Il percorso è culturale oltre che tecnologico, dobbiamo agganciare il futuro – penso all’Industria 4.0 – e comprendere cosa significa digitalizzare un’impresa. Oggi il Paese deve investire in cultura digitale, evoluzione manageriale e favorire alleanze tra Università e imprese promuovendo la crescita dei giovani. Gli sforzi si devono rivolgere alla formazione continua certificata e al passaporto delle competenze del lavoratore, oltra alla definizione di nuovi modelli manageriali.

A marzo, in pieno lockdown, a seguito della remotizzazione delle attività lavorative, si è realizzato un vero scambio intergenerazionale delle competenze e delle conoscenze. Gli adulti hanno imparato ad accedere a piattaforme digitali e a operatività fino ad allora inutilizzate.

 

D – Pmi e digitale. Quali sfide per le aziende?

La sfida vera è di governare il cambiamento, a prescindere dal settore produttivo e le imprese sono il motore dell’innovazione.

Sentiamo parlare spesso di rivoluzione digitale, ma è un concetto che non mi vede pienamente d’accordo, poiché implica uno scenario nel quale si subisce questo evento. Mentre noi in qualità di cittadini, imprese e istituzioni, dobbiamo essere i protagonisti di questa trasformazione agendo su riforme e crescita con coraggio e visione.

Vi deve essere una grande responsabilità del pubblico e del privato con l’obiettivo di realizzare delle contaminazioni virtuose, a livello locale e territoriale, tra filiere ed ecosistemi.

Questo è l’impegno che si sono assunte tutte le imprese della Filiera TLC. Il digitale non è solo un driver di competitività, ma anche uno straordinario strumento per ridurre il gap culturale del Paese e dunque leva di inclusione.

È una chance imperdibile per il Paese, quasi un’ultima chiamata direi.

Se non ora quando?