Anna Amati Vice Presidente presso META Group, società internazionale con una consolidata esperienza nel settore dell’innovazione

Anna è un architetto, abilitatore dell’innovazione, ha acquisito più di 20 anni di esperienza sulle politiche di sviluppo economico e sui meccanismi di supporto all’innovazione di aziende e territori, con particolare attenzione al trasferimento tecnologico e alla creazione di spin-off.

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D: Cara Anna, grazie per averci concesso questa intervista: ci vuoi raccontare un po’ della tua ricca esperienza professionale, fino alla fondazione di Meta Group, importantissima realtà di Venture Capital, attiva in tutta Europa?

Grazie a te Andrea per l’invito! Iniziamo subito con una domanda impegnativa…per partire prendo in prestito una frase di Jung che dice “Non sono quello che mi è successo, sono quello che ho scelto di essere”.

Credo che la prima scelta importante sia stata quella di frequentare il liceo classico. Un’esperienza di studio intensa, ricca e completa che ha formato il mio essere su alcuni valori chiave (oltre quelli forti avuti in eredità dalla mia famiglia): la coesistenza dei due mondi, quello dell’umanesimo e quello della scienza, l’impegno a cui segue un risultato, la curiosità per il nuovo (il pensiero socratico…so di non sapere! Mi era piaciuto all’epoca moltissimo!), la conoscenza che ci rende indipendenti, lo studio del passato quale insegnamento per formulare nuove ipotesi più consapevoli, la forza del pensiero e del sapere per contrastare l’arroganza e la mediocrità.

Scelgo poi di laurearmi in Architettura a Roma, percorso che rifarei mille volte e che mi ha lasciato la capacità di disegnare un “oggetto” (una maniglia come una città) finito e funzionante partendo da un foglio bianco, di risolvere con l’innovazione i problemi che si presentano, di lavorare in squadra (perché un grattacielo non lo costruisci da sola!) di migliorare la qualità della vita delle persone, il valorizzare l’unicità dei luoghi e soprattutto la voglia di non avere confini, di viaggiare e ricordare dettagli che altri menti umane hanno generato prima di me.

Dopo una specializzazione in analisi e tecniche diagnostiche non distruttive nelle costruzioni ed alcune esperienze all’estero, arriva, agli inizi degli anni ’90 la felice scelta di lavorare con un gruppo di giovani ingegneri (tra cui mio fratello Luigi) alla creazione di META Group, di cui sono a tutt’oggi socia e vice presidente. Qui la scelta determinante è stata quella di unirmi a persone con più esperienza e più brillanti di me. Credo nel lavoro in team e nel maggior valore generato dalla collaborazione di più esperienze.

Il motto che ci accompagna dal ’93 è “Knowledge to market” ed il logo di META Group da sempre è stato l’albero della conoscenza con i suoi frutti (spin off e startup a rapida crescita).
Agli inizi degli anni 2000, in maniera definirei pionieristica e sulla scia di alcune esperienze internazionali, lanciamo i primi fondi “Ingenium” e promuoviamo insieme ad un gruppo di imprenditori illuminati (in primis Francesco Marini Clarelli e Luigi Capello a cui devo tanto) la nascita di IAG (con i primi investimenti in Green Bone, Angiodroid, Biogenera…) .
Queste due scelte hanno condizionato quello che sono io ora e hanno tenuto a battesimo l’ultima scelta importante che come gruppo è stata fatta, ovvero quella di fare evolvere la META, nell’area dedicata alla finanza, in una Società di gestione del risparmio per la gestione di fondi di capitale di rischio early stage in Italia e in Europa.

Ho personalmente investito gli ultimi anni alla costruzione, insieme a META Group e a nuovi Partner (Massimo Gentili, Salvatore Majorana e Stefano Peroncini), della EUREKA! Venture SGR di cui io stessa sono socia e membro del cda con delega alle Relazioni istituzionali. Insieme abbiamo lanciato il primo fondo Eureka! Fund I Tech Transfer, che mi vede quale membro del team e del comitato investimenti…and more is yet to come!

 

D: Il Venture Capital nel nostro Paese ha avuto alterne fortune: quali sono le prospettive a tuo parere per un settore così importante?  

La risposta breve alla tua domanda è che sinceramente ritengo che ci sia moltissimo da fare in questo ambito.
Quella lunga è che se guardo indietro dagli inizi degli anni ‘90 ad oggi l’Italia si è ovviamente mossa ma non con la rapidità e con la potenza che sarebbe stata necessaria.

Oggi i quotidiani (finalmente!) contengono articoli sulle “knowledge baseD startup” (anche perché stanno salvando il mondo! evviva!), i governi hanno promosso leggi per incentivare e regolare il settore, i ministri e le multinazionali parlano di open innovation, esistono i club di business Angels (anche uno fondato da donne A4W!), sono partiti il FNI ed ENEATech…negli anni ’90, quando con i miei soci abbiamo iniziato questo mestiere non era certo così.
Non possiamo quindi ignorare quanto si è cercato di fare e quanto è stato fatto, è innegabile però che siamo quasi all’inizio.

Da un lato manca un numero significativo di imprese innovative in Italia, tale da avere un impatto forte sull’economia. Ci sono generazioni intere di ragazzi che se ne vanno (che di per sé è un bene!) ma che poi non tornano (e questo è un male). Quelli che rimangono basterebbero certo, ma non hanno stimoli e con gli scenari di disoccupazione che ogni giorno disegniamo loro, sono sempre più demotivati. E il primo segreto per fare impresa si sa, è essere ottimisti.

Ci sono interi territori del nostro Paese che, nonostante il digitale, vivono emarginati rispetto a quello che accade nel mondo. Mancano esempi, collegamenti, mancano insegnamenti, massicci percorsi strutturati e duraturi (non episodici) sull’imprenditorialità nelle scuole e nelle Università e, quando ci sono, sono visti ancora come qualcosa di “altro” rispetto alla normalità.

Conosco personalmente tanti amici della Terza Missione delle Università. Sono sottodimensionati, non hanno risorse e devono fare i salti mortali anche per rendere visibile nel sito ufficiale dell’Ateneo la loro esistenza. Mancano regolamenti nazionali su gestione proprietà Intellettuale e su costituzione di spin off tanto per dirne una…in generale manca, da parte di chi decide, la voglia di sperimentare, di innovare, manca quell’apertura mentale che permette di giocare d’anticipo e di migliorare lo status quo. C’è troppa stanchezza e pigrizia.

Dall’altro lato, mancano operatori specializzati. Ci sono “nuclei storici” che sono cresciuti, nuovi nomi si stanno affermando. Fondi specializzati, club di business Angels, piattaforme di equity crowdfunding. Ottimo, abbiamo fatto passi avanti ma se guardiamo con occhi sinceri siamo ancora un eco-sistema piccolo, frammentato e autocelebrativo.

Come dicevo, lo scorso anno c’è stato un segnale molto positivo e sono nati nuovi organismi che potranno dare impulso al sistema. Siamo ancora lontani però dal coinvolgere il Paese, dall’essere protagonisti della sua ripresa economica. Con i miei partner di EUREKA! Venture SGR ho da poco chiuso un secondo round di raccolta di cui sono molto soddisfatta. So esattamente quanto sia però difficile trovare capitali per fare decollare nuovi fondi, quanto sia difficile liberare capitali e farli confluire nel Venture Capital italiano. Si devono fare sforzi enormi e questo dice tutto sul dove siamo. Oltre agli Istituzionali, abbiamo avuto la capacità di attrarre alcuni eccezionali imprenditori e innovatori…ma quanti altri non rispondono? Troppi secondo E quindi questo vuol dire che per i prossimi anni avremo ancora molto da costruire per passare il messaggio che l’innovazione si fa, non si racconta e che per farla c’è bisogno di conoscenza, di risorse umane e di capitali.

 

D: Sei anche tra i più attivi e noti business angel italiani. Che consigli puoi dare a un giovane startupper, soprattutto in questo momento così complesso.

Che bella domanda! Dare consigli è la cosa più difficile per chi “sa di non sapere!”
Scherzi a parte, io dico sempre alle persone con cui ho la fortuna di parlare che vivono in un momento favorevole. E lo dico perché ne sono convinta.
In primis perché la conoscenza non è mai stata così alla portata di tutti come oggi. Il digitale poi ha eliminato barriere che solo trent’anni fa era impossibile demolire. Pensate alla barriera linguistica o alla barriera del costo degli aerei (ovvio, covid permettendo) così come
quello dell’istruzione.

Oggi le lingue si imparano gratuitamente, giocando, ascoltando canzoni e guardando i film, Stanford ed Harvard mettono a disposizione piattaforme on line con corsi di formazione gratuita…si possono frequentare percorsi di incubazione ed accelerazione a distanza, da qualunque parte del mondo ci si trovi. Si possono conoscere persone e proporre idee con qualche click e comprare libri a meno del costo di una birra.

E allora perché mi dicono…è così facile fallire e così difficile riuscire? Non ho una risposta certa ma, per esperienza personale, credo che sia sempre necessario partire con la cassetta degli attrezzi piena, prima di intraprendere un qualsiasi percorso ed aver chiaro quali siano gli obiettivi da raggiungere. Nessuno sa dall’inizio quale sarà la strada che dovrà percorrere, c’è chi va più dritto e chi deve affrontare più tornanti, chi chiede indicazioni e chi ce la fa da solo, ma alla fine, se la meta è chiara, si arriva sempre.

Le regole del gioco per un imprenditore non sono state modificate dal digitale. Certo quest’ultimo permette di accorciare tante distanze ma anche di credere che la strada per riuscire sia più facile. Secondo me, invece, fare impresa oggi non è diverso nella sostanza dal fare impresa ieri. Ci vuole un prodotto/servizio che il mondo voglia comprare, ci vuole la capacità di produrlo e di gestirne la crescita, ci vogliono le risorse economiche per raggiungere il mercato e ci vuole la lungimiranza del leader e del suo team di gestire il percorso imprenditoriale durante tutta la sua vita. E questa vita è fatta di alti e bassi, di gioie e dolori e il fattore umano è determinante.

Preparazione, commitment, leadership, resilienza, determinazione, allegria, intuito, curiosità, etica, umiltà, competenza, sangue freddo, mente aperta, concentrazione, visione e capacità di execution ecco secondo me questi sono gli attrezzi con cui si può affrontare un viaggio imprenditoriale. E non credo che tutto ciò si possa trovare in una sola persona per cui…suggerisco di creare una squadra con cui affrontare questo viaggio.

 

D: Come sai, YOURgroup ha introdotto in Italia il tema del Fractional Executive. Quale prospettive vedi nel rapporto tra managerialità e mondo delle start up italiane?

Come accennato l’innovazione si fa, non si predica.
Uno dei principali problemi delle nostre imprese esistenti, che rischiano di essere espulse dal mercato, è di non averci creduto nel momento giusto e di essere rimaste appese ad un modello statico, indipendente da quello che accade fuori. Le esperienze di fractional executive in aziende medie e grandi in Italia credo sia un modo efficace per portare dall’esterno quell’esperienza manageriale che non si è sviluppata, come avrebbe dovuto, all’interno.

Se ci pensi è un modello di open innovation, di cervelli e non di tecnologie, ma il principio è lo stesso! Certo l’elemento critico è lo scegliere il soggetto giusto. L’ impatto che possono creare queste figure in una startup, sempre a condizione che si scelga la persona giusta e si trovino formule d’ingaggio win-win, a mio avviso è sicuramente positivo. E l’intuizione di rendere queste figure più accessibili in termini di costo è sicuramente corretta. La sfida in questo senso è riuscire a sviluppare modelli, anche contrattuali, che possano essere ben visti da entrambe le parti.

Vedo anche un’altra strada interessante e tutta da esplorare ma molto attuale su cui, magari, possiamo aprire un confronto. Come fondo di Tech Transfer Eureka! investe anche su linee di ricerca che basano la loro forza sull’efficacia della tecnologia e sulle potenzialità di mercato delle sue applicazioni. Un tema che rimane spesso scoperto è quello del team che possa poi portare sul mercato queste innovazioni…il team di ricerca, quasi sempre, a meno di eccezioni, vuole portare avanti la sua ricerca o comunque lavorare sullo sviluppo della tecnologia e non diventare imprenditore. Qui si aprono, a mio avviso, scenari molto interessanti per il “Fractional Executive” basati sull’integrazione tra esperienza di business e qualità dei risultati della ricerca, capaci di guidare ed accelerare il trasferimento sul mercato e creare valore.