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D: Hai avuto una vita professionale ricchissima, con incarichi di grande prestigio, in campi anche diversi, accademici e non. Quali qualità ti hanno permesso di raggiungere questi importanti traguardi?
E’ sempre difficile parlare di se stessi e, soprattutto, dovendo “decantarne” i pregi! Posso provare a descrivermi per come so di essere e per come mi dicono che io sia.
Persona molto aperta, sincera, perciò posso sembrare “troppo” positiva e leggera. Trovo importante la verità, anche quella che si deve ricercare e interpretare, volendo andare a fondo nelle cose; in Puglia si dice “mi fisso”. Quindi, testardaggine e caparbietà mi appartengono sin dalla nascita; se c’è un tema, un obiettivo, un compito da esplorare o raggiungere mi do’ e mi dono! Nel senso che faccio di tutto per raggiungerlo, perseguirli, per portarlo a termine. E, non tanto misurarmi con gli altri ma con me stessa. A questi tratti devo aggiungere che sono molto curiosa e ho un approccio per cui non finisco mai di imparare. E c’è tanto da imparare, sempre di nuovo e a volte inaspettato. Trovo affascinante osservare una situazione e analizzarla, anche in modo istintivo e intuitivo, come il 99% delle donne. Mi capita spesso di prenderci. È un aspetto molto femminile l’intuito. Sono doti molto utili anche nella mia attività legata al Personal branding. È necessario avere le basi per capire, ma anche un istinto, un sentimento per andare avanti; ai miei studenti spiego sempre che nel brand ci vuole quella capacità che io chiamo “effetto di pancia”.
D: Il concetto di personal branding e corporate reputation è evoluto molto in questi anni: in che modo questi concetti stanno influenzato il mondo aziendale? Hai scritto anche un libro molto interessante sul tema. Ti va di parlarcene un po’?
Un conto è ragionare e pensare che tu effettivamente vuoi costruire un tuo personal brand, vuoi seguire un percorso, che ti permetta di definire gli obiettivi, tuoi, personali e un altro conto voler essere leader. In realtà il personal branding fa paura rispetto alla leadership. Significa essere consapevole di pensare te stesso come se fossi un brand. Considerando che poi, erroneamente, si pensa che Brand sia uguale a comunicazione. Molti Ceo pensano che il brand sia solo comunicazione. Il personal branding non è solo comunicazione, è Brand, contenuto, promessa (da fare e da mantenere!). Se invece parli di leadership, oppure di coaching allora quello piace di più, ha un appeal più familiare, che si erge a fattore di successo! In realtà i due concetti non sono molto distanti. Solo il fatto di avere la consapevolezza di avere se stessi come brand, con tutte le accezioni positive. Non è solo promettere qualcosa ma, al contrario, fare in modo che si materializzi la promessa che tu vuoi essere. Allora a quel punto prendendo questa strada ci sono molto aree di sovrapposizione, intelligenza emotiva, empatia, interazione sociale è così via.
D: Come è evoluto il settore dei “costruttori di brand personale” negli ultimi anni?
Fino a poco tempo, il personal branding era solo per le celebrities, i vip. In epoca pre-social fino a inizio anni 90-00 era un’attività che richiedeva un investimento importante in termini di risorse economiche, strategiche e umane, allo scopo di “essere attrattivi” e “attrarre”. Ovviamente per farlo si doveva essere spesso “sotto i riflettori” dei media, ecco perché solo per le celebrità! Anche perché, se il pubblico non ti vede non può dire se sei attrattivo o meno, non può percepirti, non può giudicarti, non può valutarti. Poteva funzionare per pochi, Richard Branson, fece miracoli nella sua epoca.
Oggi, nel momento in cui si sviluppa il personal brand, ci sono due fenomeni:
- la possibilità di raggiungere gli altri in modo più semplice e rapido;
- la crescente attenzione al se, alla cura di se e alla crescente volontà di essere attrattivi e di crescere.
Le due dimensioni, insieme, hanno un effetto detonante. Se io ho la possibilità di essere il più possibile esposto per rendermi attrattivo e credo molto in me è un percorso importante. A questo fenomeno di sviluppo della persona si aggiunge un fenomeno, relativamente recente, per certi aspetti di pochi anni precedente al Covid, la capacità di esporre anche le proprie debolezze. Branson, a un certo punto, su Linkedin mi è piaciuto per l’abilità, sua o dei suoi collaboratori che gli seguono i social, di fare affermazioni “umane”, intime, sintomo di potenziali debolezze che connotano ogni forma di vita, umani compresi. Un approccio umano nel dimostrare le debolezze. Se però le debolezze vengono abusate o sorpassate è un rischio.
D: Ho avuto il piacere di essere tuo ospite in un bell’evento sul tema del personal branding in cui ho raccontato l’esperienza di YOURgroup. A tuo avviso, stante l’evoluzione del settore manageriale, quale evoluzione vedi per il fractional executive?
Io la vedo in quest’ottica. Nelle aziende si sviluppa sempre più l’agire per attività, frammenti di parti e piani più ampi. In quest’ottica il fractional executive è una nuova tipologia di management, ha la lo scopo di portare avanti un pezzo di piano e un’attività specifica. È diverso dal temporary management e dal temporary executive, che sono a tempo, nel fractional è ad attività. Ormai si va ad attività e relative performance. È chiaro che osservandolo da un punto di vista manageriale, meglio ragionare come fractional executive che come temporary manager. Il temporary fornisce il “tempo”, il fractional l’attività e il conseguente risultato. Lo sviluppo non può che essere positivo. Le aziende ormai, di ogni dimensione, stanno acquisendo questa visione e di qui l’evoluzione del fractional è un dato di fatto.
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