Jonathan Pacifici,  General Partner Sixth Millennium Venture Partners

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D: Grazie per avere accettato questa intervista. Quale percorso hai fatto e quali esperienze per raggiungere i tuoi straordinari risultati professionali? 

Finito il liceo a Roma ho deciso di inseguire il mio sogno (che in realtà è il sogno bimillenario dei miei avi) e trasferirmi in Israele. Ho conseguito un BA in Management alla Ben Gurion University ed iniziato una carriera nella consulenza manageriale. Era l’inizio del boom tecnologico e mi sono specializzato nello sviluppo internazionale delle aziende tech. Per alcuni anni ho lavorato in una grande azienda di consulenza locale, poi ho deciso di mettermi in proprio creando la mia boutique. Per tanti anni ho accompagnato startup e grandi aziende tech sui mercati europei facendo al contempo technology scouting in Israele per grandi gruppi internazionali. Tra i miei clienti mi piace ricordare Cyota, la startup che ha lanciato il neo Primo Ministro Naftali Bennet, poi acquisita da RSA. Ad un certo punto ho deciso di investire su me stesso ed ho fatto un MBA alla Kellogg School of Management della Northwestern University. Nel corso dell’MBA ho maturato la decisione di spostarmi sul Venture Capital e così nasce Wadi Ventures, un veicolo di pre-seed con il quale abbiamo investito in 15 startup israeliane e più recentemente il mio secondo veicolo Sixth Millennium Venture Partners. Detta così sembra banale ma come ogni percorso è stato una maratona ad ostacoli che tra l’altro ho descritto nel mio ultimo libro “Gli Unicorni non prendono il corona”.

2- Secondo te quale differenza esiste tra le aziende che hanno affrontato il cambiamento e quelle che ancora restano ancorate al “leit motiv” “abbiamo sempre fatto così”?

A mio avviso tutto dipende dalla forma mentis del management (e della proprietà).  Il primo problema di chi resta indietro è l’autoreferenzialità. In un mondo globale vince chi è in grado di dialogare con il resto del mondo. Israele non sarebbe ciò che è senza un forte rapporto di osmosi con la Silicon Valley. Poi c’è un tema di skills, di consapevolezza di ciò che manca a livello personale o aziendale. In un mondo sempre più permeato dalla tecnologia vincerà chi avrà migliore accesso a quelle skills tecnologiche imprescindibili per le aziende tech. In molti paesi, incluso Israele, questo si traduce in un’esposizione precoce al mondo della programmazione, della fisica, della matematica e della biologia. Oggi alle medie in Israele le mie figlie programmano in Python ed Arduino e persino alle elementari apprendono i primi rudimenti di Processing. Il mio consiglio pertanto è studiare. Certo non basta perché il mondo è un luogo sempre più competitivo. Certo è che saranno avvantaggiati coloro che disporranno di molteplici set di skills. Ad esempio, le lingue, così importanti in un mondo globale ma anche capacità che possono costruire ponti tra discipline diverse. Questo per dire che affrontare il cambiamento significa avere la consapevolezza che il mondo è in continuo movimento e che le opportunità hanno oggi una velocità enorme. Per coglierle bisogna essere altrettanto veloci e disposti a cambiare.

3- Il tuo nuovo libro dipinge uno scenario di successo nel mondo delle startup israeliane. Quali sinergie di successo vedi per l’ecosistema digitale italiano e le sinergie con quello israeliano?

I numeri Israeliani sono semplicemente pazzeschi. Nel 2020 il comparto tech ha raccolto $ 10,6 miliardi, superando la soglia psicologica dei 10 miliardi e battendo tutti i record nonostante la pandemia globale senza precedenti che ha devastato l’economia mondiale. Si tratta di un incremento di oltre il 20% rispetto al 2019 e il capitale versato alle aziende locali è più che triplicato in soli sei anni. La stessa strabiliante cifra è stata raggiunta nei primi 6 mesi del 2021 e si va quindi verso il raddoppio. Parliamo solo di investimenti: il conto delle quotazioni, acquisizioni e fusioni è ancora da fare ma sarà ancora una volta astronomico. Solo quest’anno sono nati 32 nuovi unicorni. L’Italia è ovviamente molto lontana.

Il problema principale in Europa in generale ed in Italia in particolare è che l’innovazione, soprattutto quella tecnologica, necessita di un ecosistema ed in molti paesi europei, ad esempio l’Italia, questo ecosistema non esiste. Non ci sono i centri di R&D delle grandi multinazionali, non ci sono i fondi di Venture Capital ed anche gli atenei universitari hanno un approccio molto distante rispetto a quello che forma i ragazzi delle startup israeliane o americane. Quand’anche si vede qualche iniziativa ‘innovativa’ spesso è la pura applicazione commerciale (generalmente in ottica B2C) di tecnologie esistenti. Il vero motore invece sono quelle realtà che si occupano di ‘enabling technologies’ e che cambiano le regole nei rispettivi mercati. È proprio per questo che dico sempre che Italia ed Israele sono complementari. È inutile come alcuni propongono cercare di duplicare il modello Israele in Europa, non funziona e non funzionerà. Concentriamoci invece sul competitive advantage che abbiamo.

Le aziende israeliane sono assetate di una sponda di mercato. In Israele c’è la tecnologia e l’innovazione, in Europa un’infrastruttura industriale di tutto rispetto. La formula dovrebbe essere: tecnologia israeliana + sistema industriale europeo. Da qui la possibilità di Joint Ventures e collaborazioni industriali e commerciali. È una formula che funziona e che nel medio e lungo termine permette di valorizzare le aziende italiane rendendole più competitive sui mercati globali. Al contempo lavorare con un comparto particolarmente virtuoso come quello israeliano consente alle imprese, anche digitali, italiane di acquisire know how creando una contaminazione virtuosa.

4- Covid e crisi associata in che modo stanno modificando i paradigmi di lavoro e quali mutamenti diventeranno trend (pensiamo al fractional executive, per esempio)?

L’architettura delle aziende sta cambiando in maniera radicale. L’utilizzo di tecnologie che oggi sono delle vere commodity ha già modificato il mercato del lavoro, ma siamo solo all’inizio. Molti ruoli diverranno superflui e ci sarà bisogno di ripensare le aziende da una parte ma anche le carriere. Il tema del fractional executive è certamente un trend in crescita anche nella consapevolezza che le aziende hanno delle fasi di sviluppo talmente rapide che non è detto che il CEO adatto ad una fase di startup sia anche la figura corretta per gestire l’execution di un aziende divenuta poi matura. C’è anche un tema di geografie. In quest’anno di covid abbiamo dovuto ridefinire la geografia. Da una parte la tecnologia ci ha avvicinato, dall’altra alcune presenze in loco sono diventate imprescindibili. Un esempio che sto seguendo con molto interesse sono i team di startup geo agnostici. Una volta i co founders erano compagni di banco, oggi ha molto senso cercarsi un co founder in un altro paese unendo il meglio di “mondi diversi”. Un altro tema è l’esternalizzazione e l’automazione di alcune funzioni. Oggi, sull’onda dei digital nomads moltissimi servizi, sono virtualizzati. Oggi con la e-residency estone e piattaforme di gestione come Xolo, un digital entrepreneur italiano può vivere in Thailandia, operare la sua società in Estonia, con un conto Wise in Belgio ed una corporate tax allo 0%. Il gap tra questo digital nomad e il classico imprenditore manifatturiero sta diventando enorme. Siamo solo all’inizio di una rivoluzione.

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