Carlo Corcione, Partner e Director – D’Amato Shipping, è un manager specializzato in commercio internazionale, shipping e logistica. Ha un MBA in Shipping e Logistica ed un PhD in International Commercial Law, entrambi ottenuti nel Regno Unito. Scrive libri ed articoli ed è inserito nella bibliografia ufficiale della United Nation Commission On International Trade Law. Il suo libro “Third Party Protection in Shipping” è inserito per il secondo anno consecutivo nella Book Authority List “Best New Commercial Law Books”.
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D: Grazie Carlo per averci concesso questa intervista: dal punto di vista professionale, ci vuoi raccontare il tuo interessante percorso?
Ricordo che, ai tempi in cui dovevo decidere “cosa fare da grande”, inserii 2 filtri per aiutarmi nella decisione: lavorare in un settore che si interfacciasse con il commercio internazionale, ma che avesse una solida presenza in Italia. Ne uscì: “shipping”.
Probabilmente i filtri furono indotti dal contesto nel quale sono cresciuto.
Essendo la mia famiglia (da parte materna) di Sorrento, i miei parenti hanno sempre lavorato nei trasporti via mare: ufficiali, comandanti, direttori di macchina etc. Ho passato l’infanzia ad ascoltare le loro storie al ritorno dagli imbarchi. Quando invece erano imbarcati (all’epoca niente email, cellulari etc), a casa con le zie e le cugine non si poteva né uscire, né telefonare perché si aspettava “la telefonata” dei mariti o dei figli quando entravano in qualche porto – spesso si aspettava per giorni.
La persona che mi ha sostanzialmente “cresciuto”, mio zio, orgoglioso comandante in pensione della flotta Lauro, passava le giornate a raccontarmi di mari in tempesta, di problemi alle gru (facevo davvero fatica a capire all’epoca cosa ci facesse una gru su una nave) e della meraviglia dei luoghi quando andava a caricare soia in Argentina o carbone in Indonesia.
I filtri di cui sopra mi hanno aiutato a scegliere un’industria che, essendo al centro del commercio internazionale, dialoga con tutti gli altri settori. Dalla finanza, alle assicurazioni, dalle commodities alle infrastrutture, e questo mi ha permesso di avere, a “soli” 38 anni, già molteplici esperienze manageriali in settori sempre inerenti allo shipping ma completamente diversi tra di loro. Dai contenziosi, alla gestione di pacchetti assicurativi, dalle ristrutturazioni finanziarie e societarie alla gestione degli equipaggi, dall’amministrazione societaria alla strategia commerciale.
Insomma sono passato da gestire casi di pirateria ai non performing loans. Dal gestire 88 marittimi su 4 navi supporto alle piattaforme petrolifere a joint venture con fondi di investimento.
Credo che pochi altri settori (ma forse azzarderei nessuno) ti offrano la possibilità di gestire dinamiche così diverse.
Il filo conduttore di questo percorso professionale è certamente la grande propensione al lavoro. Credo molto nella costante, sistematica applicazione e dedizione al lavoro.
Anche qui suppongo si ritorni alle origini. Il motivo per cui passavo l’infanzia con lo zio comandante in pensione a Sorrento, è perché mio padre chirurgo, lavorava fino a 14-16 ore al giorno. Oggi ha quasi 70 anni e magari non fa più le 14-16 ore ma raramente ne fa meno di 12. Giusto per capire il DNA.
D: Covid e crisi della domanda. Come questi eventi hanno influenzato la tua industria?
Guarda, questa è una domanda rischiosa, perché al giorno d’oggi qualunque risposta ad una domanda che abbia al suo interno la parola “Covid” potrebbe essere mal interpretata o banalizzata.
Allora vado diretto al punto: La crisi della domanda non mi preoccupa. L’analizzo, ma nella programmazione mi baso già direttamente sul worst case scenario.
Il motivo è molto semplice: è troppo inaffidabile, è troppo ballerina e poi diciamocela tutta, gli imprevisti, i famosi “cigni neri” stanno diventando sempre più bianchi. Noi siamo abituati ma adesso anche altre industrie stanno arrivando alla stessa conclusione: viviamo in perenne crisi.
Solo negli ultimi 13 anni (ed oltre naturalmente al Covid), noi dello shipping abbiamo assistito prima al doppio carpiato del 2008, con crisi finanziaria e cambio strategia della Cina, il tutto innaffiato da un’offerta di navi esorbitante.
Poi abbiamo avuto “il cigno nero” del 2014 con il crollo del petrolio. Ricordo ancora le riunioni nell’Agosto del 2014 con i rappresentanti di una oil major con i quali lavoravo in upstream (estrazioni) in Scozia che mi illustravano i piani di sviluppo con il Brent a 120 dollari a barile. Un anno dopo il Brent andava a 20 dollari al barile e le piattaforme erano spente in mezzo al mare. Contemporaneamente mi trovavo a gestire delle navi nella fase downstream (trasporto) che, seppur per motivi contingentati di stoccaggio ma si trovavano a sorpresa a vivere un mercato florido (la stessa cosa è successa l’anno scorso in piena crisi Covid).
Capisci che la domanda non può essere il centro della nostra strategia.
Diverso invece è l’approccio all’offerta, e, se andiamo ad analizzare l’orderbook delle nuove costruzioni, ci accorgiamo che è molto più sostenibile rispetto a quello del 2008, anzi direi che per alcune tipologie di navi è sostenibile a prescindere da qualunque paragone temporale, e questo dà un certo senso di fiducia nel programmare i prossimi 10 anni.
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D: Come percepisci il ruolo dell’innovazione nel mondo aziendale navale italiano?
Dipende. Se consideriamo le innovazioni ad impulso outside-in (new technologies per intenderci) non solo sono inevitabili, ma spesso (pensiamo ad esempio a quelle propedeutiche all’agenda 2050 sull’ambiente) sono anche auspicabili. A tal proposito credo che un tavolo importante, per il quale dobbiamo ben prepararci, sarà il United Nation Climate Change (COP26) a presidenza UK del prossimo Novembre dove l’Italia ha la vice presidenza ed il pre-COP a Milano a Settembre.
Se invece prendiamo in considerazione le innovazioni ad impulso inside-out sono un po’ diffidente. È una cosa che di per sé guardo sempre con una certa prudenza.
Sai quella frase che fa più o meno: “non c’è cosa peggiore per un azienda del dire abbiamo sempre fatto così?” Ecco questa è sicuramente una frase pericolosa, ma allo stesso modo l’innovazione fine a sé stessa, indotta semplicemente da una nuova struttura di governance o perché (permettimi) fa cool, ma non è ben incardinata in un piano di sviluppo, è altrettanto pericolosa.
Sai qual è il rischio? È che ci si ritrovi a girare a vuoto. Facciamoci aiutare dal pragmatismo della lingua Inglese, il rischio è “much ado about nothing”. Tanto rumore per nulla.
Sintetizzo: innovazione strategica si, ma con equilibrio e programmazione.
D: Commercio navale e armatori. Quali sfide per le aziende? Quali risorse umane (CFO, HR etc..) ritieni che le aziende dovrebbero aggiungere?
Una sfida industriale è certamente rappresentata da un consolidamento aggressivo, che porta inevitabilmente ad un vantaggio competitivo dato da economie di scala, che solo in pochi possono permettersi. Dunque, credo che la tendenza sarà sempre più quella di avere la gestione tecnica in outsourcing, separata dalla gestione commerciale, finanziaria e dall’azionariato.
Per quanto riguarda invece le risorse umane, il tema principale al giorno d’oggi credo sia legato alla gestione delle informazioni.
Sono troppe, random, spesso inutili e che confondono le figure professionali (soprattutto quelle junior).
In tal senso quello che mi preoccupa di più a livello gestionale è questo luogo comune che si è fortificato negli ultimi anni in cui bisogna “thinking outside the box”.
Sai cosa sta succedendo? Che stiamo tirando su generazioni di pensatori “outside the box” che spesso però, se non incanalati in un processo decisionale strutturato, rischiano di creare una grossa inefficienza costo/opportunità.
Io dico sempre impariamo prima a pensare “inside the box” impariamone bene tutti gli angoli e i contorni del box e poi iniziamo a pensare “outside the box”.
Sicuramente dunque un information manager (per chi se lo può permettere) diventa una figura opportuna al giorno d’oggi, quanto meno per chi è particolarmente esposto sui mercati internazionali. Per chi ha budget più limitati invece si può quantomeno lavorare ad un flusso strutturato ed appoggiarsi a società esterne che possono aiutare ad implementare strumenti di Enterprise Resource Planning in tal senso.
Da un punto di vista della gestione delle assunzioni invece vi è un problema di fondo secondo me e cioè l’evidente difficoltà di noi manager (ma anche, se mi permetti, dei processi HR interni) di riuscire a fare emergere in fase colloquio le soft skills ed il grado di intelligenza emotiva di un candidato.
Tutti siamo in grado, leggendo un CV o facendo un colloquio, di capire una persona dove ha studiato ed in base alla posizione se sa che cosa è un IRR se fa finanza, o un impairment test se si occupa di accounting, o se sa come si calcola lo scrap value di una nave se si occupa di compravendita.
Ma poche aziende sono davvero strutturate a livello HR da avere dei processi di selezione che facciano venire fuori attitudini ed approccio del candidato.
Dunque, un processo (quanto meno parziale) di outsourcing della gestione colloqui a società specializzate, diventa fondamentale.